Nella tempesta mediatica provocata dalla crisi di governo che in questi giorni ha raggiunto livelli molto forti, si parla costantemente del nostro debito pubblico e delle conseguenze di esso, spread e quant’altro.
Ho scritto qualcosa in proposito in altro post che per chi fosse interessato può leggere su questo sito, e credo che un po’ tutti ci poniamo la domanda: Come fare per risanare le finanze dello Stato e diminuire il debito, o meglio, come fare per diminuire il rapporto DEBITO /PIL?
In verità la domanda che dovremmo porci è: come abbiamo fatto in passato?
Perché, nel passato è successo mai che il rapporto DEBITO/PIL sia stato virtuoso?
Certo, è accaduto nel 1945, cioè alla fine della seconda guerra mondiale.
Ecco il grafico:
Come potete osservare il rapporto crolla nel 1945, con la fine della seconda guerra mondiale.
Come mai? Non hanno pagato più i debiti dello stato? No, il debito è comunque aumentato, ma il PIL con la ricostruzione post bellica è incrementato vorticosamente in tre anni: 1945, 1946, 1947 (fonti: Italia: PIL e Debito pubblico dal 1861 al 2015 – Attilio Folliero, Caracas 22/06/2015 e per i dati Istat: Sommario Statistiche Storiche 1861 – 1965).
Come hanno fatto???
Vi propongo l’analisi di Attilio Folliero che potete leggere per l’intero qui
“Alla base della formidabile discesa del rapporto debito-Pil del dopoguerra vi è la forte immissione di denaro da parte delle Banche centrali e, nella fase della ricostruzione, anche da parte del Piano Marshall; tutto ciò dette una forte spinta alla domanda e produsse anche una forte inflazione. La crescita sostenuta del prodotto che ne derivò, insieme alla svalutazione del debito derivante dall’inflazione, ridusse drasticamente il peso del debito sul prodotto lordo. Tale riduzione durò ben oltre la fase della ricostruzione, nonostante quelli fossero gli anni nei quali nella generalità dei paesi avanzati furono sviluppate le strutture portanti del Welfare State. Il modello distributivo delineatosi in seguito all’affermarsi di politiche riformiste risultò perfettamente funzionale al tipo di sviluppo di quella fase: la crescita sistematica delle retribuzioni reali in linea con la crescita della produttività finanziò la diffusione in tutti i paesi avanzati dei consumi di massa, mentre la crescita, attraverso l’adozione di sistemi fiscali fortemente progressivi, della quota di reddito assegnata ai bilanci pubblici, finanziava la creazione dello Stato sociale e riduceva ulteriormente le disuguaglianze.
Ne risultò una crescita economica ininterrotta per trent’anni, priva di crisi finanziarie, e senza che né debito pubblico, né debito delle famiglie aumentassero rispetto al prodotto lordo. Le crisi finanziarie sono tornate con l’affermarsi dell’ideologia e delle politiche liberiste: a partire dagli anni ottanta ce ne sono state cinque di portata mondiale. Le retribuzioni sono rimaste sostanzialmente ferme e le disuguaglianze sono aumentate e poiché ciò è avvenuto nel contesto di un modello di crescita di tipo consumistico, la conseguenza è stata una forte crescita del debito delle famiglie. Ma cresce ininterrottamente anche il debito pubblico.”
Per chi volesse una base teorica autorevole sotto il profilo istituzionale suggerisco la lettura della pubblicazione della Banca d’Italia di Toniolo Crescita Economica italiana, di cui riporto alcuni brani.
“La partecipazione dell’Italia alla Seconda guerra mondiale si rivelò una catastrofe anche economica. Se tra il 1915 e il 1918 il PIL era cresciuto a una media dell’1,9% all’anno, tra il 1940 e il 1945 in media calò ogni anno di quasi il 10%, con una riduzione più marcata tra il 1943 e il 1945, quando la guerra fu combattuta
in territorio italiano. Nel 1945 il PIL italiano era tornato al livello del 1906. La ricostruzione, tuttavia, fu veloce: nel 1949 il PIL aveva già superato del 10% il livello del 1939, il migliore anno prebellico.
La «seconda sistemazione postbellica», diversamente dalla prima uscita da Versailles nel 1919, fu decisiva nel preparare il terreno alla rapida crescita successiva dell’Europa occidentale e del Giappone (cfr. infra, capp. 3 e 4 e la relativa bibliografia). Il Piano Marshall fu un elemento cruciale di tale sistemazione, non
tanto per le dimensioni che furono relativamente modeste (meno del 2% del PIL italiano tra il 1948 e il 1952), ma per avere reso meno difficile la provvista di mezzi di pagamento per l’importazione di materie prime e di tecnologia statunitense e per avere ridotto l’impatto redistributivo della stabilizzazione monetaria.
Il Piano Marshall fu anche un importante strumento istituzionale: tramite l’Organizzazione per la Cooperazione Economica Europea, cui l’Italia partecipò fin da subito con entusiasmo, il Piano Marshall mise in moto il lungo percorso verso la maggiore apertura ai mercati internazionali e l’integrazione europea. La
politica di progressiva, irrevocabile apertura all’economia internazionale rappresentò una netta cesura con il passato. Fu una scelta politica fondamentale, tenuta ferma malgrado l’ostilità di potenti gruppi di pressione, gli stessi che a partire dal 1925 avevano promosso l’autarchia (Toniolo, Salsano 2011).
Fu avviata la liberalizzazione del commercio internazionale, smantellando a poco a poco l’apparato autarchico e passando progressivamente da pagamenti bilaterali a pagamenti multilaterali (Guido Carli, futuro governatore della Banca d’Italia, fu il primo presidente dell’Unione Europea dei Pagamenti).
Per quanto riguarda la politica interna, l’inflazione galoppante fu messa sotto controllo nell’estate del 1947, non prima però di averla adeguatamente sfruttata per cancellare buona parte del debito pubblico. Da questo momento in poi i primi governi del dopoguerra e la Banca d’Italia assunsero una posizione ortodossa in materia di politica monetaria e fiscale, inclusa la ricostituzione delle riserve valutarie. Questa politica incontrò forti critiche non solo dalla sinistra, ma anche dall’amministrazione del Piano Marshall
(cfr. infra, cap. 5).
Allora come negli anni successivi, la liberalizzazione del mercato interno si dimostrò più difficile da realizzare dell’apertura alla competizione internazionale. Manca ancora un’approfondita analisi della tradizionale preferenza italiana per una concorrenza internazionale accompagnata da mercati interni rigidamente regolati. Nei primi anni del dopoguerra, tuttavia, la politica favorevole al libero scambio e gli stessi trattati europei furono dovuti soprattutto all’iniziativa delle autorità politiche che seppero
superare l’opposizione, aperta o strisciante, di potenti gruppi di interesse. Questi stessi esponenti politici, tuttavia, nutrivano una buona dose di sfiducia – tratta sia dall’esperienza degli anni Trenta sia dalla propria cultura – nella capacità delle imprese private di realizzare un’adeguata accumulazione di capitale e di tecnologia e di accrescere la produttività (cfr. infra, cap. 3). Fu confermata la decisione, presa nel 1937, di non privatizzare l’IRI.
Un corollario non trascurabile di questa decisione fu la scelta di mantenere in mano pubblica praticamente l’intero sistema finanziario che continuò a essere fortemente orientato alla banca e strettamente regolato” .
La cosa interessante è che il Piano Marshall rappresentava solo il 2% del Pil italiano, una cifra che rapportato al Pil 2017 sarebbe pari a 34 miliardi di euro, una somma che equivale, più o meno, agli interventi delle varie leggi di stabilità annuali.
Ovviamente c’è qualcosa che oggi certamente non possiamo fare, cioè la svalutazione del debito derivante dall’inflazione, perché siamo ingabbiati nei rapporti europei monetari, commerciali e politici e solo a parlarne si rischia l’incriminazione per lesa maestà.
Tuttavia ci può essere una via di mezzo tra l’impossibile svalutazione inflazionistica e la rigida politica monetaria fondata sull’euro ed i parametri di Maastricht, cioè la rinegoziazione di questi nel senso indicato, tra gli altri, dal programma del Governo del Cambiamento, che – oltre a prevedere una Banca per gli per gli investimenti, lo sviluppo dell’economia e delle imprese italiane utilizzando le strutture e le risorse già esistenti – prevede “Al fine di consolidare la crescita e lo sviluppo del Paese … indurre la Commissione europea allo scorporo degli investimenti pubblici produttivi dal deficit corrente in bilancio, come annunciato più volte dalla medesima Commissione, ma mai effettivamente e completamente applicato”.
C’è tanto da fare, specialmente al centro sud Italia, ma nel senso degli investimenti pubblici, cioè strade, ricostruzione delle zone terremotate, riconversioni industriali, energia rinnovabile, ecc. ecc. e non nel senso delle piccole contribuzioni di sostegno.
In ogni caso è auspicabile che non si apetti un’altro conflitto mondiale per fare quello che, invece, può essere fatto subito ed in tempo di pace.
Categorie:politica
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